Yves Lebreton
Scritti



Titivillus Edizione

Collana "Altre visioni"
pp. 384 - 127 foto - 38 illustrazioni
Dimensioni 14,5 x 20,5


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PRESENTAZIONE

In uno scritto, al contempo autobiografia e saggio, Yves Lebreton ci invita a cogliere le "sorgenti" ispiratrici della sua ricerca artistica. Traccia le tappe del suo impegno sulla via elitaria del Teatro Astratto il cui assolutismo lo spingerà ad intraprendere la propria "desacralizzazione" tramite la sovversione del comico e il teatro popolare. Distante dalle convenzioni storiche, ripensa l'insegnamento di Etienne Decroux nel contesto del teatro contemporaneo, provocando inattesi confronti tra Edward Gordon Craig, Adolphe Appia, Emile Jaques-Dalcroze, Jacques Copeau, Antonin Artaud e Jerzy Grotowski. Non senza spirito critico, analizza le basi dell'Antropologia Teatrale di Eugenio Barba. Sorprendentemente per un artista del silenzio, il suo studio della voce incentrato su i ritmi respiratori e il significato originario dei fonemi, lo conduce ai confini del linguaggio primario. Ma soprattutto, la sua inesauribile necessità di discernere al di là dell'attore "l'uomo nella sua essenza", gli permette di svelare le "energie" viventi dell'espressione umana. Le sue tecniche del "Corpo-Energia" e del "Corpo--Vocale" in simbiosi con i quattro Elementi, i regni della natura, il cromatismo dei colori e dei suoni, costituiscono l'ossatura di una metodologia totalmente inedita per l'attore dove non si tratta più di acquisire un sapere, ma di scoprire le potenzialità dell'Essere che sono le fondamenta di ogni individualità.

INDICE
Premessa
Prologo
Infanzia
Il Jazz
La chitarra
Il violoncello e il piano
Abbandono degli studi secondari
La scuola preparatoria per l'insegnamento del disegno
La compagnia teatrale di Monsieur Rubac
I corsi d'arte drammatica Perinetti
Spettacolo poetico
Incontro con Étienne Decroux
Rinuncia alla musica
Il Mimo Corporeo
Le conferenze di Étienne Decroux
Il Mimo Corporeo e il teatro
Il poeta ginnasta e l'attore creatore
La Statuaria Mobile
La metodologia della Statuaria Mobile
Analisi della Statuaria Mobile
Il corso degli anziani
Il dinamo-ritmo e il processo interiore
Le improvvisazioni e la linfa
L'Energia
Il Mimo Astratto
Il Mimo Astratto e la pantomima
L'atelier con Ingemar Lindh
Il Mimo Vocale
La dizione e il canto
Ricerca sul linguaggio
Dissenso
Stile e tecnica
Maximilien Decroux e Jacques Polieri
L'Esaltazione Corporea
La conferenza di Jerzy Grotowski
Akropolis
Incontro con Eugenio Barba
Ferai
Étienne Decroux e Eugenio Barba
Espulsione dalla scuola di Étienne Decroux
Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Il Bauhaus e Oscar Schlemmer
Buster Keaton
I quattro Elementi e cinque studi di Mimo Astratto
Abbandono dell'insegnamento del disegno
Il teatro professionale
Creazione dello Studio 2
L'acrobazia con Romano Colombaioni
La maschera di Jerzy Grotowski
Ostinazione II
L'elaborazione della tecnica del Corpo-Energia
Dialogo e l'Oggetto Corporeo
Realizzazione del film Il Mimo Corporeo
Risonanza e il Corpo Risonante
La metamorfosi di Jerzy Grotowski
Possessione e incontro con Gilles Maheu
Sviluppo dell'allenamento fisico
Il risveglio
L'elaborazione della tecnica del Corpo-Vocale
Canto
La rottura
La desacralizzazione
Il Riso di Henri Bergson
Il comico e il tragico
Il senso dell'ironia
Chaplin, Tati, Keaton, il clown e Beckett
Monsieur Ballon e la sua famiglia
La nascita di Eh?...
La scoperta, la virginità, l'infanzia
L'azione di strada
Spettacoli per i bambini
Eh?... o le avventure di Monsieur Ballon
Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare
La ricerca fondamentale
Il Teatro Corporeo
Atti senza parole 1 e 2 di Samuel Beckett
Partenza di Gilles Maheu e Reidar Nilsson
Addio al Teatro Laboratorio e dissoluzione dello Studio 2
Diritto di sguardo
La Gabbia e il Teatro dell'Albero
Boh!... o le disavventure di Monsieur Ballon
L'Albero
S.O.S
La caduta d'Icaro
Flash
Esilio
La casa salvatrice
Homo Sapiens
Nessuno
La conquista della libertà
Epilogo

NOTE
*1. La Fonetica Combinatoria
*2. Gli assistenti di Étienne Decroux
*3. “Il padre del mimo moderno” e Thomas Leabhart
*4. Étienne Decroux, A. Appia e M. De Marinis
*5. E. G. Craig, A. Appia, J. Copeau e Étienne Decroux
*6. Il Mimo Corporeo e “L'atletismo affettivo” d'Artaud
*7. Mimo Soggettivo e Mimo Astratto
*8. Il Mimo Astratto e Antonin Artaud
*9. Il concetto di Corpo-pensiero
*10. La linguistica e la Fonetica Espressiva
*11. Arte e linguaggio
*12. L'originale e la copia
*13. L'accademismo del Mimo Corporeo
*14. Il selvaggio e il domare
*15. Jerzy Grotowski e Antonin Artaud
*16. Jerzy Grotowski e Étienne Decroux
*17. Sbattere o non sbattere la porta
*18. Maestro creatore e praticante
*19. Lettera a Étienne Decroux
*20. Tecnica e creatività
*21. I prestiti della tecnica grotowskiana
*22. Manuale del perfetto grotowskiano
*23. La strategia di Jerzy Grotowski
*24. Il Corpo-Energia e il corpo sottile
*25. Il concetto di Energia
*26. La tecnica del bastone e della stoffa all'O. Teatret
*27. Il Corpo Risonante e Émile Jaques-Dalcroze
*28. La respirazione e Jerzy Grotowski
*29. Recupero di Étienne Decroux
*30. Antropologia o Etnologia Teatrale
*31. I prestiti di Eugenio Barba


ESTRATTI
Incontro con Etienne Decroux
...Dopo aver spinto il portone dell'edificio ed essermi informato presso la portinaia, attraversai l'androne d'ingresso che dava accesso a un piccolo giardino interno dove, in fondo al vialetto principale, sorgeva una casetta di mattoni rossi, simile a quelle che René Magritte amava raffigurare nelle sue tele. Bussai alla porta. Mi aprì un uomo corpulento con indosso una vestaglia. Aveva lo sguardo penetrante, la fronte larga, il naso aquilino, i capelli lunghi. Mi salutò con voce calda, mi strinse la mano con fermezza, e mi fece entrare in una stanza, che altro non era se non la cucina. Il mobilio era di una semplicità estrema: un tavolo di formica, una credenza di legno massiccio, un lavello di ceramica, una cucina a gas e una stufa a carbone.
Ero stupefatto di essere accolto da Etienne Decroux in persona in un ambiente tanto anonimo.
Avendogli comunicato la mia intenzione di frequentare la sua scuola, chiamò sua moglie Suzanne che era incaricata di accogliere i nuovi allievi.
Mi iscrissi all'istante.
L'indomani, attraversai di nuovo il cortile interno del palazzo per bussare alla porta della casetta di mattoni rossi. Entrai in cucina, dove fui invitato a lasciare le scarpe insieme a quelle degli altri allievi intorno alla stufa a carbone. Salii nella mansarda che fungeva da spogliatoio. Mi infilai una calzamaglia nera e scesi nella cantina, adibita a studio, coi suoi 60 metri quadri di linoleum, la sua luce al neon, i suoi muri azzurri, la sua parete a specchio, la sua tenda di fondo bianca, il suo unico vasistas e il suo orologio a muro. Presi posto in un angolo cercando si seguire gli esercizi che una decina di allievi eseguivano nel più profondo silenzio. Scoprivo di avere al di sotto del cranio una spina dorsale estesa fino all'osso sacro, un torace in cui batteva il mio cuore e il mio respiro, una vita flessuosa, un bacino saldo, delle gambe erette, dei piedi appoggiati a terra, delle braccia sospese, delle mani ramificate e tutto un corpo completamente estraneo ai comandi della mia mente.
Questa distanza tra la mia volontà e i movimenti imprecisi del mio corpo mi fece capire immediatamente che il tempo necessario per accedere alle basi dell'espressione corporea non si doveva contare in mesi, come presumevo, ma in anni. Soltanto la perseveranza poteva permettermi di accedere un giorno alla conoscenza di quella materia espressiva favolosa che è il corpo umano.


Le conferenze di Etienne Decroux
...Le lezioni si svolgevano dal lunedì al sabato ed erano suddivise in due classi distinte: il corso regolare della sera in cui 'les nouveaux et les anciens' [i 'nuovi' e gli 'anziani'], come li chiamava Decroux, stavano assieme e quello del mattino, riservato agli 'anziani'. La lezione del venerdì sera, dedicata all'improvvisazione, era sempre preceduta da un'introduzione che noi chiamavamo “conferenza”. Essa doveva presentare il tema che avremmo trattato, ma spesso sconfinava dal suo soggetto trascinandoci in sfere poetico-filosofiche.
Quei momenti di riflessione divagante erano appassionanti. Nessuno poteva sottrarsi al fascino della personalità d'Etienne Decroux. Era il primo a improvvisare poiché affrontava quegli incontri senza note scritte e, presumo, senza neppure un canovaccio. Visibilmente adorava abbandonarsi ai discorsi non premeditati.
Lo rivedo, seduto di fronte ai suoi allievi, con le mani posate sull'immancabile consolle che accompagnava ognuna delle sue conferenze e la cui fattura era cosi delicata che temevo si spezzasse sotto la pressione della sua stretta. Amava toccarla, accarezzarla, stringerla per meglio afferare l'idea che cercava. Lo rivedo, gli occhi socchiusi, un velo di nebbia nello sguardo, la testa oscillante all'indietro, soffiare e inspirare con forza dalle narici dilatate come per eliminare qualche polvere cerebrale e annusare più liberamente l'odore del suo pensiero nascente. Poi, all'improvviso, uscendo dal torpore, si sporgeva in avanti, acchiappava le parole con gli occhi e iniziava a parlarci…
Le sue conferenze non erano mai circoscritte entro i limiti di un enunciato teorico o di una dimostrazione didattica. Erano ogni volta la testimonianza di un vissuto. Non c'era scissione tra la concezione e la pratica. L'idea della sua arte, la costruiva giorno per giorno, nel proprio corpo, attraverso lo sforzo del movimento. La scuola non era altro che l'anticamera del suo teatro a venire. Voleva costruire un nuovo attore per far sorgere un nuovo teatro. Un attore corporeo per un teatro del corpo: il Mimo Corporeo.


Il Mimo Corporeo e il teatro
Etienne Decroux viene a torto presentato come il padre del mimo moderno. Non esiste alcuna filiazione diretta tra la sua ricerca artistica e la stirpe dei Pierrot, da Gaspard Debureau ai mimi Séverin e Georges Wague. Il Mimo Corporeo non è assolutamente una 'modernizzazione' del mimo tradizionale. È nato nell'ambito della scuola del Vieux-Colombier ed è il risultato di una nuova pedagogia formativa dell'attore incentrata sulla rivalutazione dell'espressione fisica.
Prima di consacrarsi all'arte del movimento, Etienne Decroux è stato attore. Ha lavorato sotto la direzione di Jacques Prévert, Jacques Copeau, Gaston Batty, Louis Jouvet, Antonin Artaud e, soprattutto, nella compagnia di Charles Dullin. La sua ricerca si è sviluppata sotto l'influsso di Edward Gordon Craig e di Adolphe Appia, i cui scritti auspicano il ritorno a una visualizzazione suggestiva della scena in totale contrasto con il naturalismo di Antoine e il realismo psicologico di Stanislavskij.
Fin dal 1931, nell'articolo Ma Définition du théâtre [La mia definizione del teatro], Etienne Decroux si pronuncia a favore della supremazia dell'arte dell'attore, dichiarando: “Il teatro è arte d'attore”. Contro l'egemonia dell'autore e del regista, Decroux pone l'attore al centro della creazione teatrale. Ma, soprattutto, individua nel corpo l'elemento fondante e regolatore del linguaggio scenico che testo e scenografia vengono a completare in un rapporto di stretta necessità e dipendenza. La presenza fisica dell'attore è dunque il germe a partire dal quale tutta l'arborescenza teatrale prende forma. Decroux chiamò la visione di questo teatro: Teatro Completo, in opposizione al concetto di Teatro Totale che ambisce a una sintesi tra le arti sotto la supervisione del regista, grande officiante dell'opera.


L'Energia
“Linfa” o “necessità interiore”, entrambe quelle formulazioni si aprivano sulla nebulosa psichica sorgente di tutti i linguaggi e di tutti gli slanci espressivi. Più la fissavo, meno ero in grado di nominarla. A seconda dell'angolatura dell'osservazione interpretativa, assumeva forme diverse. Poteva emergere dalla lucidità cristallina, tralucere attraverso il velo del sogno, risalire lungo le pieghe della memoria o filtrare all'estremità dei sensi. Ogni volta, le sue apparizioni sembravano essere i riflessi di un'unica e medesima realtà che mi sfuggiva.
Di fronte a quell'idra dalle mille teste, eternamente ipotetica e fugace, tentavo di coglierne mentalmente la matrice originaria. Progressivamente, le definizioni si scomponevano per dissolversi in una sostanza più fondamentale che chiamavo Energia.
L'Energia contiene in potenza tutti gli stati di coscienza e non-coscienza. In essa, le molteplici sfaccettature della nostra interiorità non sono più formule statiche appuntate con uno spillo alle pareti del ragionamento discorsivo. Diventano raggi eccentrici di un unico nucleo di luce in rifrangenza. Ma, soprattutto, la nozione di Energia, grazie alla sua assoluta integrazione nella materia, permette di rompere il recinto introspettivo della psiche, radicandola al cuore del nostro organismo biologico.
In virtù di quest'equazione fusionale, il pensiero non è più unicamente il risultato di un processo neuronale confinato nelle circonvoluzioni della corteccia cerebrale, come tenta di dimostrare la neurologia, ma emana dalla nostra totalità organica, poiché il flusso elettromagnetico che lo anima sorge dalla nostra stessa struttura atomica e cellulare.
L'Energia è una e molteplice, etere e materia. È la sorgente stessa del soffio vitale che attraversa al contempo l'Essere e l'Esistente, la mente e il corpo. Questo concetto diventerà il nucleo centrale a partire dal quale tutta la mia tecnica del Corpo-Energia si svilupperà nel corso degli anni a seguire.


Il Mimo Astratto
L'ascolto dell'interiorità nella pratica del Mimo Corporeo era ancora più evidente quando Decroux ci proponeva di improvvisare sul tema del “pensiero”. Insieme al “duetto amoroso”, era uno dei suoi temi prediletti. Non si stancava di tornarci con un'insistenza che talvolta rasentava l'ossessione. Ne ero entusiasta perché, in tal modo, esplorava l'aspetto del Mimo Corporeo per il quale nutrivo il maggiore interesse. Quello che in un primo tempo aveva chiamato “Mimo Soggettivo” e più tardi “Mimo Astratto”.
Il Mimo Astratto faceva eco nel campo teatrale alla sensibilità che mi aveva spinto verso la musica e la pittura.
Sono sempre stato affascinato dalla trasparenza innata del linguaggio musicale. Non racconta niente. La potenza del suo flusso sonoro fa vibrare la nostra emozione senza passare per il filtro di una forma tangibile. È magicamente interiorizzata dall'ascoltatore nell'istante stesso del suo farsi.
Quanto alla pittura, mi aveva aperto le porte dell'astrazione. Grazie a Kandinskij, non era più al servizio di un soggetto, ma diventava soggetto. Punti, linee, superfici e colori erano gli unici materiali palpabili tramite cui doveva transitare la visione interiore. Il pretesto della raffigurazione era abolito.
Kandinskij esigeva la non-rappresentatività della forma. Decroux pretendeva la non-rappresentatività dell'azione. Eliminando il supporto narrativo del proprio atto, l'allievo era costretto a canalizzare il suo sentito attraverso la sola realtà muscolare del corpo, come il pittore astratto la imprime nella sola realtà della materia pittorica. Gli slanci, i trattenimenti, le tensioni, i rilassamenti, le aperture e le chiusure dei movimenti dovevano riflettere quelli del pensiero. Il corpo nello spazio rivelava lo spazio interiore del corpo.


L'Esaltazione Corporea
Frequentavo ancora la scuola di Etienne Decroux, quando il centro culturale della città di Bourget, alla periferia sud di Parigi, mi propose di tenere un laboratorio di Mimo. Naturalmente, insegnavo la tecnica della Statuaria Mobile, ma volevo anche valermi di quell'opportunità pedagogica per portare avanti delle ricerche personali.
Avevo potuto verificare che il comune denominatore di tutta la tecnica decrousiana era la concentrazione mentale. Focalizzandosi sull'evento corporeo, essa gettava un ponte tra attività cerebrale e attività fisica. Ogni articolazione, ogni muscolo, ogni nervo doveva essere controllato dalla nostra consapevolezza di agire nello spazio e nel tempo. L'essere fisico si trovava in tal modo dominato dall'essere mentale e la tecnica del Mimo Corporeo mi sembrava più una disciplina dello spirito che una disciplina del corpo.
Per controbilanciare l'ascendente del mentale, sentii il bisogno di sperimentare un percorso inverso, che partisse dal corpo per andare verso la mente, facendo appello non più al controllo ma alla spontaneità.
In un angolo della sala erano accatastati alcuni tappeti da judo. Dopo averli sistemati in modo che coprissero l'intero pavimento, chiesi a ogni studente di lasciarsi andare a una vera e propria esplosione fisica. Le regole dell'esercizio erano semplici. Non appena l'allievo metteva piede sui tatami, doveva scatenare tutte le risorse nervose del proprio corpo lanciandosi in una dinamica ininterrotta di salti, cadute e rotolamenti. La rapidità dell'esercizio era tale che la premeditazione dei movimenti risultava impossibile. Ciascuno era costretto ad affidarsi ai propri riflessi. Il corpo era in tal modo guidato solo dall'intelligenza dell'istinto. Chiamai quello studio “Esaltazione Corporea”.
Il risultato fu sorprendente.
Decroux mi aveva insegnato l'articolazione sintattica del corpo, ora scoprivo il grido corporeo.
Immediatamente l'analogia con l'animalità si impose e rammentai quell'assioma: “L'uomo è un animale pensante”. Mi attraversò la mente con la folgorazione di un'evidenza. L'istinto è primordiale! Garantisce la nostra sopravvivenza biologica e la vivacità dei nostri sensi, senza i quali nessun pensiero potrebbe nascere.
Il celebre cogito cartesiano - “Penso dunque sono” - era reversibile: sono dunque penso.
La reciprocità di quell'assioma poteva essere sintetizzata nei seguenti termini: sono dunque penso, dunque sono. L'essenza genera il pensiero che crea la coscienza. La realtà sensoriale e intuitiva della nostra animalità è la radice del nostro Io pensante.
Lungi dall'opporsi alla tecnica di Etienne Decroux, l'Esaltazione Corporea la completava. Anzi, la giustificava. Il controllo è legittimo unicamente se interviene su uno stato che sfugge ad ogni controllo. Suppone, a monte, l'incontrollabile.
Il risveglio dell'animale dormiente in ciascuno di noi si rivelava condizione indispensabile alla sua doma.
Si addomestica solo ciò che è selvaggio e il selvaggio è la bellezza del domare.


La conferenza di Jerzy Grotowski
Nel 1966, nella cornice del Festival del Théâtre des Nations, il pubblico parigino fece la scoperta del Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski. Lo spettacolo “Il Principe Costante” venne unanimemente salutato dalla critica come una vera e propria rivelazione. Non essendo riuscito a vederlo, perché le repliche fecero il tutto esaurito, assistei alla conferenza di Grotowski al Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica.
Il luogo non era stato evidentemente scelto a caso. Non si trattava dell'ennesima conferenza stampa nel foyer di un teatro, ma di un incontro all'interno di un tempio della ricerca. Grotowski voleva sottolineare senza ambiguità il carattere scientifico del Teatro Laboratorio.
C'era il fior fiore dell'intellighenzia parigina: critici, registi, attori e docenti universitari… tra cui si aggirava qualche smarrito spettatore.
Ho un ricordo visivo molto nitido dell'evento, tanto ne rimasi impressionato.
Nella penombra, vidi arrivare un personaggio austero, vestito con un completo nero. Era pingue, imberbe, con la carnagione cerea, i capelli corti, grassi, incollati alle tempie, e gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali da sole dalla spessa montatura nera. Circondato da alcuni dignitari del C.N.R.S., si sedette a un grande tavolo scuro, dove stavano ad attenderlo una caraffa d'acqua, un bicchiere e un posacenere. Fumava una sigaretta dopo l'altra e parlava nervosamente con voce nasale venata di accento polacco, senza che l'ombra di un sorriso venisse a illuminargli il volto. La sua esposizione era densa, precisa, implacabile, in un silenzio di piombo. Ci parlò delle sue ricerche al Teatr Laboratorium di Wroclaw, della sua concezione del “Teatro Povero”, della “catarsi”, dell'“attore santo”, della “via negativa”. Aveva la potenza di un grande inquisitore e l'ascetismo di un San Francesco. L'uditorio era sotto ipnosi.
Alla fine della conferenza, gli furono rivolte diverse domande, in particolare a proposito di Antonin Artaud, dei cui scritti dichiarava di essere venuto a conoscenza solo di recente.
È pur vero che una stessa pulsazione sanguigna sembrava unire il suo pensiero al “Teatro della Crudeltà” di Artaud.
Da parte mia, ero colpito soprattutto dal parallelismo tra la sua ricerca e quella di Etienne Decroux.
Ravvisavo nell'articolo “La mia definizione del teatro”, che Decroux aveva scritto nel 1931, una prefigurazione delle tesi di Grotowski. Trent'anni prima, Decroux aveva identificato nell'arte dell'attore l'essenza del teatro. Aveva letteralmente anticipato il concetto di “Teatro povero”, subordinando la ricchezza di un'arte alla povertà dei suoi mezzi espressivi: “Credo che un'arte sia tanto più ricca quanto più è povera di mezzi”.
Come Grotowski, aveva privilegiato la nozione di spettatore su quella di pubblico, presentando il proprio lavoro a un uditorio ancora più ristretto di quello del Teatr Laboratorium di Wroclaw. Jean-Louis Barrault ne dà testimonianza in questi termini: “Egli [Decroux] ha finito per non volersi più esibire se non davanti a due o tre persone. Oltre, diceva, la gente perde il proprio libero arbitrio”
Neppure la catarsi grotowskiana era estranea al pensiero di Decroux: “Se il teatro emoziona, è come emoziona un crimine, quando lo vediamo dalla nostra finestra”. Quest'immagine ricorda la condizione voyeuristica che Grotowski cercava di indurre negli spettatori, per renderli testimoni attivi dell'azione e non consumatori passivi dello spettacolo.
Ma di tutti i valori comuni a Decroux e Grotowski, l'intransigenza artistica mi sembrava essere ciò che li univa più profondamente. Entrambi propugnavano un'etica di lavoro basata sul dono di sé, sulla ricerca degli estremi e sul senso dell'assoluto. Entrambi consideravano l'arte teatrale una scelta di vita che coinvolgeva la totalità di chi la compiva.
Ricordo l'entusiasmo di Decroux alla lettura di un articolo su Grotowski uscito sul “Nouvel Observateur” che aveva per titolo “Un regista che doma l'attore”. Mentre stavo per uscire dalla scuola, Decroux mi interpellò brandendo il settimanale con aria trionfante: “Avete letto? Un regista che doma l'attore!”
Nonostante ciò, Grotowski e Decroux sono fondamentalmente diversi sul piano della personalità e del metodo. Il razionalismo decrousiano, impregnato di chiarezza discorsiva, è in totale contrasto coi chiaroscuri mistici di Grotowski. Decroux esalta il dominio dell'istinto da parte della mente, Grotowski cerca, sotto la maschera del quotidiano, il risveglio della “memoria del corpo” nella sua relazione con l'inconscio. L'articolazione geometrica del Mimo Corporeo si oppone radicalmente al linguaggio impulsivo degli attori grotowskiani.


Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Serge Ouaknine aveva appena terminato un corso di studi al Teatr Laboratorium di Wroclaw. Di ritorno a Parigi, voleva creare un gruppo teatrale per mettere in scena il “Prometeo incatenato” di Eschilo. Dopo aver riunito attorno a quel progetto vari allievi della scuola Jacques Lecoq, aveva sollecitato la partecipazione anche di quelli della scuola di Etienne Decroux. Accettai di unirmi al suo atelier di creazione con grande entusiasmo. Mi si offriva finalmente l'opportunità di sperimentare l'allenamento elaborato da Grotowski.
Il gruppo contava una quindicina di persone in tutto. Due o tre volte alla settimana, ci ritrovavamo di sera in una palestra alla periferia di Parigi. Serge ci introduceva alla pratica degli “esercizi fisici e plastici” messi a punto da Ryzsard Cieslak.
Il lavoro si suddivideva in tre fasi.
La prima era incentrata sull'apprendimento ginnico degli esercizi, la seconda sulla loro concatenazione all'interno di una sequenza che dovevamo liberamente definire e la terza sull'emersione delle nostre motivazioni personali.
Quella sovrapposizione di vincoli ginnici e motivazioni personali all'interno di una partitura gestuale prestabilita nel corso della terza fase del lavoro provocava in me un conflitto.
Se l'obiettivo dello studio era far emergere una potenzialità creativa nutrita da motivazioni personali, allora rivendicavo il diritto di creare la partitura al di fuori della concatenazione degli esercizi.
Se, al contrario, l'obiettivo era lo studio degli esercizi, allora preferivo ignorare la ricerca delle motivazioni per concentrarmi esclusivamente sull'apprendimento dei movimenti nella loro dimensione ginnica.
La tecnica e la creazione rispondono a esigenze troppo diverse per essere affrontate simultaneamente. La tecnica esige disciplina, al fine di acquisire la maestria degli esercizi. La creazione, al contrario, esige la libera esplorazione del proprio capitale immaginativo. Non è sottoposta alle regole oggettive della tecnica, ma alla sola interiorità soggettiva dell'attore di cui occorre esaltare le risorse.
Quando l'artista crea, deve dimenticare la tecnica per entrare completamente nel mondo del sentire che è la sorgente della sua ispirazione. Non ci si dà se non dimenticando se stessi.
“Il talento”, diceva Montesquieu, “è un dono che Dio ci ha fatto in segreto e che riveliamo senza saperlo”.
La presa di coscienza dei mezzi tecnici può intervenire a monte dell'atto creativo, o eventualmente a valle, mai durante il suo esplicarsi.
L'apprendimento di una lingua è sempre anteriore alla nostra capacità di esprimerci attraverso di essa. Non appena un idioma ci diventa familiare, non cerchiamo più le parole per comunicare il nostro pensiero, sono le parole a venirci incontro per esprimerlo.
Ho sempre tracciato una frontiera netta e precisa tra l'oggettività del lavoro tecnico e la soggettività del lavoro creativo.
Inoltre, ero disorientato dal fatto che l'insieme degli esercizi proposti da Serge fosse in effetti preso a prestito da varie discipline: acrobazia, Hatha-Yoga, Katakali, Ritmica… Jerzy Grotowski non ne fa mistero e molti suoi scritti fanno riferimento all'integrazione di tali pratiche nella sua sperimentazione teatrale.
Niente a che vedere con Decroux che aveva fatto tabula rasa di qualsiasi esperienza pregressa prima di costruire il proprio metodo. Come hanno fatto Delsarte, Stanislavski, Dalcroze, Laban, Graham e altri ancora nei campi di ricerca loro propri.
Anche se Grotowski adattava ai propri fini gli esercizi che prendeva a prestito, quell'adattamento non poteva in nessun caso essere considerato una tecnica originale. Era solo un innesto.
Gli esercizi che utilizzava erano stati concepiti per finalità completamente diverse dalle sue. Se le tecniche dell'acrobazia, del Katakali e della Ritmica appartengono ancora alla cerchia delle arti dello spettacolo, lo Hatha-Yoga - finalizzato alla ricerca di un'armonia interiore attraverso l'introspezione meditativa - si colloca a mille miglia di distanza dal conflitto esistenziale caratteristico dell'arte drammatica.
Contrariamente a quanto si può pensare, Grotowski non ha elaborato un nuovo metodo formativo per l'attore, trasmissibile di generazione in generazione. A meno che il suo metodo consista nel non averne e che gli esercizi da lui proposti non siano altro che pretesti privi di finalità propria.
Varie sue dichiarazioni lo fanno supporre: “Senza dubbio si può accrescere la quantità di dettagli plastici, si può, passo dopo passo, trovarne altri […] Si possono iniziare gli esercizi su un'altra base. Si può trovare tutt'altro programma di dettagli […] Non è il tipo di dettagli iniziali ad essere importante, ma lo spirito della cosa”.
“Tutti gli elementi dei nostri esercizi sono sostituibili… possiamo senza dubbio ritrovare la base con altri pretesti”.
In quest'ottica, gli “esercizi fisici e plastici” non sono altro che sequenze di movimenti assemblati insieme al solo scopo di costituire una base di lavoro per l'attore. Possono essere sostituiti da altre sequenze-pretesto perché l'importante non è “il dettaglio fisico” ma “la memoria del corpo” che ciascuno deve saper risvegliare attraverso il dialogo con se stesso.
L'essenziale è spingere l'attore ai suoi estremi affinché la “maschera” delle sue difese si rompa, i suoi blocchi “brucino” e l'attore si “riveli” attraverso l'azione nella sua “intimità” più profonda. Ciò non dipende dall'esercizio in sé ma da come l'esercizio viene realizzato e guidato. Il come non si impara e non è cirscoscritto in un metodo predeterminato e trasmissibile. Nasce da un intimo ascolto tra colui che guida e colui che agisce, dal semplice rapporto tra uomo e uomo che nessuna forma di trascrizione è in grado di fissare.
In mancanza di un metodo, Grotowski propone un'etica del lavoro che va ben al di là di un semplice processo tecnico.
Il Teatro Povero è frutto di un'esperienza umana, dell'incontro miracoloso in un luogo e in un tempo dati tra una personalità eccezionale e una costellazione di collaboratori altrettanto eccezionali.
Il Teatro Povero è unico e inviolabile poiché é Jerzy Grotowski, e lui soltanto, possiede la chiave della sua risurrezione.
Grotowski ha scritto: “La mia terminologia è sorta dalla mia esperienza e ricerca personnale. Tutti dobbiamo trovare un'espressione, una parola personale, un modo strettamente personale d'influire sui nostri intimi sentimenti”.
Parlava di terminologia, ma mi piace immaginare che in effetti parlasse del proprio teatro…
Perché allora ha pubblicato nel suo libro il descrittivo degli esercizi come in un manuale?
Manuale che tutti gli apprendisti grotowskiani si sono affrettati a seguire alla lettera come altrettante ricette che permettevano di raggiungere lo stato estatico dell'“attore santo”. Improvvisamente, ai quattro angoli del pianeta, sono nati gruppi che si richiamavano al Teatro Povero senza aver mai avuto la minima esperienza di lavoro diretta col Teatr Laboratorium di Wroclaw. Erano grotowskiani perché applicavano i precetti stilati dal Maestro.
Tale divulgazione ha provocato una serie di devianze dal pensiero di Grotowski. Molto in fretta, i suoi principi si sono trasformati in schemi e gli stereotipi del teatro convenzionale che Grotowski voleva abbattere sono stati sostituiti dalle copie stereotipate del suo teatro.
Su questo punto, Decroux ha avuto l'accortezza di non inserire nel suo libro la descrizione della propria tecnica ad uso dei praticanti. Ha preferito dichiarare: “Chi vorrà la luce non dovrà che studiare”.
La tecnica di un'arte è naturalmente legata alla sua pratica. Non può essere trascritta, letta e applicata. Esige una trasmissione da Maestro a allievo al fine di preservarne lo spirito, la sostanza che si dà e si accoglie nell'incontro del vivente col vivente. La famosa tradizione segreta del teatro Nô di Zeami non era tenuta segreta per il gusto del mistero, ma per rispetto verso la tradizione orale dell'insegnamento che garantiva la trasmissione del sapere attraverso il legame esclusivo dell'esperienza umana. Persino in cucina, una ricetta dettagliata non garantisce il migliore piatto.
Tra il sapere e il fare, c'è di mezzo la maniera, che non si apprende ma si sperimenta soltanto.
E noi tutti sappiamo che l'arte sta nella maniera.


L'acrobazia con Romano Colombaioni
Prendevano parte al seminario anche altri pedagoghi invitati da Eugenio Barba. In particolare il clown Romano Colombaioni, venuto direttamente da Roma per dirigere un laboratorio di acrobazia.
Non mancai di seguire le sue lezioni.
Con piacere ritrovavo nella dinamica dei movimenti acrobatici i principi dell'Esaltazione Corporea. Nessun salto senza “choc”. Nessun lancio senza “risonanza”. Nessuna tensione muscolare senza rilassamento.
Romano non spiegava niente. Il suo metodo pedagogico si riassumeva nella formula magica: “energia, energia, energia!”. La urlava con un riso feroce, sferzandoci come bestie. Pungolati dai suoi richiami, ci lanciavamo alla cieca nelle capriole più incredibili, affidando al nostro istinto il compito di salvarci in extremis da quella follia suicida. La nostra noncuranza era pari alla nostra temerarietà. Cercavamo disperatamente di infrangere le leggi della gravità schizzando in aria come petardi di luna park. Ma l'attrazione terrestre aveva sempre l'ultima parola e precipitavamo a terra maledicendo Isaac Newton. Quando finalmente, dopo lunga e tenace applicazione, riuscivamo a volteggiare ricadendo in equilibrio sui piedi, ci rituffavamo immediatamente nel movimento acrobatico per memorizzare fisicamente la catena degli impulsi. Vittoria! Gioia! Piacere di volare!
L'acrobazia è una fantastica preparazione ludica per l'arte dell'attore. Sviluppa la coordinazione del movimento fondendo i tre aspetti fisiologici fondamentali del nostro corpo: articolazione/flessibilità - muscolo/tonificazione - nervo/stimolo.
Ma, soprattutto, permette di liberare la nostra spontaneità mettendola a confronto con le basi elementari dell'azione: decisione, proiezione, impegno, rischio e precisione.
Queste qualità, tipiche del movimento acrobatico, sono altrettanto necessarie all'arte dell'attore.
Non c'è espressione viva senza la scintilla dell'impulso decisionale, senza proiezione verso l'altro, senza impegno totale della nostra identità, senza un'assunzione di rischio che forzi i nostri limiti e senza precisione che assicuri l'efficacia dei nostri atti.
Stimolando queste cinque qualità sul piano fisico, l'acrobazia ne prepara il passaggio sul piano psicologico. Fortifica la nostra volontà, rafforza la nostra apertura e rinsalda la fiducia nel nostro istinto senza il quale l'incontro con noi stessi e con gli altri sarebbe impossibile.


Il comico e il tragico
Lungi dall'opporsi, l'attore comico e quello tragico sono uniti nella medesima etica. Entrambi sono utopisti, paria, marginali in lotta contro il conformismo. Entrambi sono in rottura col proprio ambiente. La loro condizione esistenziale è il conflitto.
Ma mentre l'attore tragico si identifica al dramma e usa la sua forza passionale per abbattere l'ostacolo, l'attore comico si distanzia da quell'ostacolo, lo aggira e lo destabilizza attraverso la corrosione del sarcasmo. Uno sublima la resistenza, l'altro glorifica la derisione.
Le due maschere che ornano da secoli il frontone dei nostri teatri appartengono a un unico volto enigmatico i cui occhi sono le due finestre del nostro sguardo aperto sul mondo.


L'azione di strada
Un giorno, mentre uscivo dalla sala prove ancora intriso del personaggio di Monsieur Ballon, mi sorpresi a guardare la hall del teatro come uno spazio inesplorato. Bastava un piccolo scatto mentale perché lo sguardo passasse dal riconoscere le cose all'oblio della loro verosimiglianza. Appena la mia mente scivolava nel vacuo, il luogo sfuggiva alla mia comprensione e ogni particolare dell'arredo risvegliava la mia curiosità, suscitava il mio stupore. Dentro e fuori dallo studio, il personaggio continuava a esistere di per sé, e ogni incidente nel suo percorso gli offriva nuove opportunità per trasfigurare gli eventi e rafforzare la propria presenza.
Quel contatto diretto con la realtà bruta mi sembrava un buon esercizio e l'idea di mettere Monsieur Ballon 'in mezzo alla strada' ha germogliato. Fu così che un pomeriggio, accompagnato dal mio ombrello, dalla valigia e dalla carrozzina, mi sono ritrovato sotto un cielo plumbeo all'imboccatura della strada pedonale di Holstebro. Nessun attore proveniente dall'austero Teatro Laboratorio di Eugenio Barba si era mai avventurato per le strade cittadine.
Immediatamente, i passanti mi identificarono come un'anomalia nella quiete del paesaggio urbano. Alcuni fingevano di non vedermi, altri mi guardavano interdetti, non sapendo se era il caso di chiamare la polizia o l'ospedale psichiatrico. Dei bambini sorridendo mi si avvicinarono divertiti. Solo un ubriacone mi venne incontro credendo di vedere in Monsieur Ballon un fratello di sangue. Tentò di dialogare con lui, ma i vapori della birra gli avevano a tal punto alterato i sensi che ogni possibile relazione era compromessa. Preferivo la mia solitudine alla sua compagnia, dialogare coi manichini nelle vetrine, le strane strisce bianche sull'asfalto e i lampioni spenti.
La diffidenza della gente non mi contrariava affatto. La loro distanza si sommava alla mia e amplificava il mio stupore nei loro confronti.
Malgrado i risultati poco gloriosi di quella prima incursione in territorio urbano, ero convinto che in futuro le azioni di strada avrebbero dovuto accompagnare le rappresentazioni in sala. Non bastava accogliere il pubblico in teatro, bisognava anche sollecitarlo nel suo habitat naturale. Non spostando lo spettacolo dal palcoscenico alla strada, né tracciando sull'asfalto il cerchio magico di uno spazio teatrale, ma facendo della strada stessa il vero spettacolo. In questo contesto, l'attore lavora senza rete. È un pescatore di correnti d'aria e deve saper cogliere al volo il fortuito laddove si presenta, trarre profitto da qualsiasi pretesto affinché una poetica scaturisca dal quotidiano. Non c'è miglior scuola dell'imprevedibile.
Scendendo dal palco per mescolarsi alla folla, l'attore comico si ricollega alla tradizione ancestrale della sua arte, popolata di giocolieri e saltimbanchi. Da sempre e in ogni civiltà, il comico è figlio del popolo. È cresciuto nelle piazze e non nei salotti. Ha sempre rappresentato la rivincita dei diseredati sui benestanti. Fare della strada il proprio teatro significava ritrovare le radici viventi dell'agitatore da cui l'attore proviene.


Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare.
Avevo sempre affrontato le rappresentazioni di Mimo Astratto col peso del mondo sulle spalle, nella sofferenza e nella lacerazione. Ora mi sorprendevo a non stare nella pelle dietro il sipario come un bambino eccitato alla vista di un nuovo giocattolo. Per la prima volta, il famoso “jeu” dell'attore (In francese la parola “jeu”, “gioco”, significa anche “recitazione”) diventava realtà. La rappresentazione non era più un rito sacrificale, ma “une partie de plaisir” [una partita di piacere]. Mi divertivo come un matto trascinando il pubblico nel mio delirio. Fioriva una nuova estasi, anch'essa impastata di sudore e di sforzi, di rigore e integrità, ma attraversata dalla cometa del riso che, di rimbalzo in rimbalzo, sprizzava da uno spettatore all'altro come un'onda travolgente.
L'ebbrezza della risata che unisce le disparità degli uomini in un unico slancio di libertà ritrovata. Il miracolo della risata che placa le nostre angosce, le nostre lamentele e i nostri rancori. Il furore della risata che smaschera i nostri tabù e la nostra alienazione. La bellezza della risata dai denti scintillanti come stelle di un cielo sognato.
Quel riso, non lo potevo ripudiare.
Portava e mi portava gioia. Penetrava nei cuori, abbatteva le barriere tra le generazioni, le classi sociali e le razze, restituendo al teatro la sua vocazione popolare.
Quel teatro, non lo potevo abbandonare.


La ricerca fondamentale
Tale cambiamento di rotta non modificava in nulla la mia ricerca fondamentale sull'arte dell'attore. Indipendentemente dal linguaggio adottato, la conoscenza dello strumento fisico-vocale restava una priorità assoluta.
Che l'attore opti per la tragedia o per la commedia, le basi sono sempre le stesse: un'energia, un corpo, una voce. La fusione di queste tre componenti é il fondamento comune a tutti gli orientamenti artistici. L'attore deve appartenersi prima di potersi dare.
Lo stesso vale per il musicista. Durante la sua formazione, non impara un genere musicale ma la padronanza del suo strumento che gli consentirà di suonare ogni tipo di musica a piacimento.
Malgrado l'irruzione del comico, restavo fedele al mio campo d'indagine sul Corpo-Energia e il Corpo-Vocale.
La vera creazione non risiedeva nella finzione momentanea degli spettacoli che potevo elaborare, ma nella scoperta dell'arte dell'attore e più profondamente dei principi immanenti al dialogo dell'uomo con se stesso.
Questa ricerca fondamentale è tuttora il filo di Arianna del mio percorso artistico. Ignorata dal pubblico, è la costante che ha attraversato in segreto la varietà dei miei spettacoli destinati a consumarsi con l'aria del tempo.


Il Teatro Corporeo
Di fronte all'apparizione inopinata di Monsieur Ballon, il termine 'Mimo Astratto', che avevo utilizzato fino a quel momento per presentare il mio lavoro, non era più adeguato.
Peraltro, questo termine non mi aveva mai veramente convinto. La nozione di 'astratto' non poteva incidere più di tanto su quella di mimo, inevitabilmente legata all'imitazione e all'illusionismo gestuale. Avendo studiato con Etienne Decroux, maestro del più grande mimo planetario - Marcel Marceau - dovevo essere un mimo.
Ero dunque costretto a trovare una nuova terminologia in grado di delimitare meglio la specificità della mia ricerca. Al fine di evitare qualsiasi malinteso, doveva tassativamente escludere la parola “mimo” e integrare la parola “teatro”.
I termini di “Teatro gestuale” e “Teatro non verbale” che circolavano all'epoca non mi soddisfacevano perché il personaggio di Monsieur Ballon faceva uso della parola e, se i miei spettacoli di Mimo Astratto rimanevano silenziosi, il progetto del Teatro Astratto che avevo in mente doveva includere la voce.
L'unico concetto a cui aderivo pienamente era quello di Teatro Completo di Etienne Decroux. Quando affiancai mentalmente le espressioni “Teatro Completo” e “Mimo Corporeo”, mi parve possibile un connubio tra le due. Il Teatro Completo diventava il Teatro Corporeo. L'aggettivo “corporeo” giustificava l'assenza di riferimenti all'espressione vocale che il sostantivo “teatro” conteneva virtualmente. Inoltre, quella nuova denominazione non escludeva nessuna alternativa. Poteva comprendere sia il teatro tragico che quello comico, sia quello astratto che quello narrativo. Non si riferiva a uno stile ma alla necessità di strutturare la totalità del linguaggio teatrale a partire dalla realtà corporea dell'attore.
Nel 1973, il termine “Teatro Corporeo” era totalmente inusitato. Da quel momento, tutte le mie creazioni sarebbero state presentate all'interno di questa cornice. I riferimenti al mimo furono sistematicamente soppressi dai miei comunicati stampa e programmi di sala. Arrivai persino a stipulare una clausola contrattuale che costringeva gli organizzatori a promuovere i miei spettacoli con l'esclusiva dicitura di “Teatro Corporeo”. Potevo sperare così di imporre un nuovo concetto teatrale in armonia con le mie aspirazioni artistiche.
Non servì a nulla.
La critica continuava a parlare del mimo Lebreton. La mia impotenza era totale ed è rimasta tale fino ad oggi malgrado le mie dichiarazioni contro quest'arte mimica che mi si incolla alla pelle come la scabbia.
Col tempo mi sono rassegnato.
Avrei forse dovuto nascondere i miei anni di formazione con Etienne Decroux?
Per onestà morale e professionale, mi sono sempre rifiutato di farlo, esponendo senza ambiguità la mia filiazione al suo insegnamento.
Personalmente, non ho mai smesso di rivendicare la mia appartenenza all'arte dell'attore. Troppo spesso si dimentica che l'attore è “colui che agisce”, non “colui che parla”; che l'onnipotente Verbo della Bibbia a cui fanno riferimento i drammaturghi per imporre l'egemonia del parlato indica, sul piano grammaticale, il fatto e non l'idea del fatto, il fulcro dinamico del pensiero che solo l'azione fisica può tradurre. La stessa parola “teatro”, che noi assimiliamo alla declamazione di un testo d'autore, etimologicamente significa “luogo dove si contempla”.
Non abbiamo forse l'abitudine di dire che andiamo a sentire un concerto e a vedere uno spettacolo?
Se di fronte a una rappresentazione teatrale, dovessimo esigere dallo spettatore di scegliere tra ascolto e sguardo, senza dubbio privilegerebbe la vista rispetto all'udito.
La natura profonda del teatro risiede nell'azione che si offre alla vista degli spettatori. Rinunciare al linguaggio verbale non significa obbligatoriamente rivestire i panni stilistici del mimo. Al contrario, significa denudarsi di tutti gli apparati del teatro per tornare alla sua origine prima: l'atto. L'atto radicato nel corpo, proiettato nel movimento, stimolato dal pensiero, assertore di una presenza. L'atto come luogo di passaggio tra donare e ricevere. L'atto come unica possibile via d'uscita di fronte all'imperiosa necessità di esistere. L'essenziale è lì: che l'atto sia vivo e integri nell'istante della propria realizzazione la totalità di colui che agisce. Il resto è superfluo, analisi teoriche e valutazioni tecniche che non saranno mai in grado di rivelare l'inafferrabile: il vissuto nell'immaginario.

Rivista “Hystrio” n. 2. 1998, Milano
Intervista a curaa di Renzia D'Incà..


Quale é il programma e quali obiettivi si é prefisso quando ha fondato la scuola di mimo l'Albero ?
"Da venticinque anni non mi fermo di dichiarare che non sono un mimo e da venticinque anni voi giornalisti continuate con ostinazione ad incollarmi questa etichetta sulla schiena. Odio il mimo, la pantomima illusionista basata sulla narrazione descrittiva e l'espressione dimostrativa: la falsità come stile teatrale. É vero che ho studiato alla scuola di Etienne Decroux che é considerato, in maniera impropria, il padre del mimo moderno. Decroux non ha nessuna filiazione diretta con la pantomima dello XIXème secolo anche se il più popolare dei suoi allievi, Marcel Marceau, ha fatto un ritorno nostalgico verso questa tradizione. É noto che Etienne Decroux non aveva alcun rispetto ne stima per la scelta artistica di Marcel Marceau.
L'arte di un Maestro non può essere valutata alla luce dei suoi allievi. Unicamente gli allievi possono essere valutati alla luce dell'arte del Maestro. Il Maestro va guardato in se e per se. Il lavoro di Etienne Decroux emerge dalla ricerca teatrale degli anni 30/40 intrapresa da Jacques Copeau e Charles Dullin per i quali ha collaborato come attore nel quadro delle loro rispettive compagnie. Decroux é un uomo di teatro. Un uomo di teatro che ha portato la sua convinzione artistica fino alla radicale cancellazione dell'espressione verbale dell'attore a beneficio della sua espressione corporea. Questo ritorno alla supremazia del corpo era un ritorno all'essenza del teatro. Senza la co-presenza fisica dell'attore e dello spettatore, nessun evento teatrale può avere luogo. Il corpo é, senza dubbio, la radice dell'albero teatrale. Dimentichiamo troppo spesso che la parola "attore" fa riferimento all'azione e non alla declamazione; che "l'espressione verbale" stessa s'identifica con il verbo, alla qualificazione dell'azione in una frase; e che in fine, la parola "teatro" significa "quello che é visto" e non sentito. La storia etimologica dell'arte teatrale pone l'azione e dunque il corpo che la esegue, al centro del suo linguaggio.
Seguendo l'insegnamento del mio Maestro, ritorno alla fonte organica del teatro: il corpo. Il mio scopo non é di limitare il teatro all'unico linguaggio fisico dell'attore ma a partire da esso, di riconsiderare il teatro come una totalità genetica dove il corpo é, nello stesso tempo, origine e regolatore della sua arte.
Il Centro Internazionale di Formazione, Ricerca e Creazione Teatrale - l'Albero non ha altro obbiettivo. A partire dalla centralità del corpo tende a riscoprire il legame che unisce questa ultima ai diversi componenti del linguaggio teatrale e principalmente alla voce. Oltre agli stage di base sul "corpo energetico" e sul "corpo mentale", l'Albero propone degli stage sul "corpo vocale", sul "corpo verbale", sul "corpo musicale" e sul "corpo comico".

Ci può fare un bilancio sull'attività del Centro ?
Tengo a precisare che il Centro é purtroppo un'iniziativa strettamente privata. Non ho avuto sostegni di nessun tipo; né dalle amministrazioni locali, né dallo Stato italiano, né dalla Comunità europea. Il Centro si é creato a partire dalle mie proprie risorse economiche conseguenti dalla vendita dei miei spettacoli. La mancanza di tale sostegno frena indubbiamente lo sviluppo e la crescita delle sue attività. Per fortuna gli studenti hanno risposto numerosi ai corsi che ho organizzato in questi 5 anni. Oltre dall'Italia, vengono da tutti i paesi europei (Germania, Francia, Austria, Svizzera, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Polonia) ma anche dagli Stati Uniti e dall'America Latina (Brasile, Argentina e Colombia). Sono principalmente, attori, cantanti o danzatori, in formazione o professionisti, ma anche studiosi, insegnanti, educatori, psicologi, architetti e persone provenienti da formazione diverse. La motivazione con cui gli studenti affrontano i corsi é grande. Lavorano per 6 - 7 ore al giorno con un impegno fisico diretto e faticoso. A questo livello il Centro funziona benissimo. Mi dà delle grandi soddisfazioni e la gente riparte ripagata non unicamente per il lavoro svolto, ma grazie anche alla qualità di vita che il Centro si fa un dovere di soddisfare in un luogo cosi privilegiato, immerso nella bellezza antica delle colline toscane. Nel corso di questo anno incrementeremo il numero degli stage. Il progetto a lungo termine prevede di allargare l'attività dei seminari a dei laboratori di formazione o di ricerca per dei periodi più lunghi e con la partecipazione di docenti provenienti da orizzonti diversi. Purtroppo senza contributi per il Centro e borse di studi per gli studenti, tale progetto rimane ancora un'utopia. Sarà sempre l'utopia ad ampliare il campo del possibile ?

Il teatro italiano é in grado di capire l'importanza del corpo per la sua mutazione ?
Il discorso é più ampio e complesso. É necessario chiedersi prima se l'Italia é in grado di capire l'importanza del teatro e più profondamente, l'importanza dell'arte e della cultura nella mutazione della sua società. Non é unicamente il teatro ad essere in crisi in Italia, ma la sua cultura e tragicamente la sua creatività artistica.
Vedere la patria di Dante, di Michelangelo, di Leonardo da Vinci, di Vivaldi, di Goldoni e di tanti altri artisti italiani protagonisti della cultura mondiale, senza un Ministero della Cultura é una vergogna. Vedere la burocrazia italiana asfissiare con le loro leggi, decreti e circolari, il giovane teatro, il teatro indipendente, il cosi detto teatro "alternativo", é rivoltante. La storia c'insegna che gli artisti innovatori sono sempre i meno conformisti e i più allergici ai corridori delle amministrazioni e agli intrighi di salone. Vedere l'impotenza o l'incompetenza dei potere politici per rilanciare la cultura quando non si ferma di dilagare la cretinizzazione di massa tramite lo schermo televisivo, é desolante e indegno.
Non saranno mai i vecchi marinai del teatro di prosa, i gestori dell'attività teatrale su fondo d'aggancio politici a rinnovare la cultura teatrale, ma i nuovi creatori. Quelli precisamente che lo stato mette allo sbando con le sue normative obsolete. Il teatro in abbonamento, il teatro di giro, il teatro "ufficiale" con il suo ronzio di routine soporifero, non fa altro che allontanare le nuove generazioni dalla realtà teatrale.
Sembra un paradosso ma é proprio la massima scritta sul frontone di uno dei più bei tempi della tradizione teatrale italiana, il Teatro Massima di Palermo, ha invocare una condotta sulla quale le responsabili delle istituzioni culturale dovrebbe meditare: "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire." È poco gratificante vedere che alla soglia del duemila é proprio la coscienza culturale dell'ottocento a darci delle lezioni di contemporaneità.
Di fronte ad una "decadenza annunciata", gli artisti e solo gli artisti, dovrebbero reagire con forza e determinazione per costringere i politici ad assumere le loro responsabilità, per rendere l'Italia degna della sua straordinaria eredità artistica in seno alla comunità internazionale. Non i soliti Presidenti d'enti o di commissione, Direttori o Amministratori, che hanno la pretesa di valutare, orientare e organizzare l'attività teatrale senza spostarsi sul campo della produzione per incontrare gli artisti e dialogare con i creatori del teatro d'oggi e di domani. Da colloquio a colloquio si consultano e consultano bilanci su bilanci, rapporti e dossier ignorando l'essenziale: la pratica artistica e la realtà dei creatori. Perché si tratta della pratica, della pratica del teatro, della pratica di un'arte. L'arte e gli artisti sono drammaticamente assente nel dibattito sul teatro.
L'arte costruisce la cultura e la cultura é il vero garante dell'evoluzione strutturale ed etica di una società. Senza cultura, la ricchezza di un paese si chiude sulla sua autodistruzione consummista..
Certo, non é guardando i valori della borsa che i politici possono apprezzarne l'esigenza e la necessità.

Le scuole di teatro in Italia e all'estero dedicano abbastanza spazio alla studio del corpo ?
Assolutamente, no ! La storia dello XX secolo non si é fermata ad evidenziare l'importanza del corpo nel linguaggio teatrale. Dalle teorie d'E. G. Craig e d'A. Appia alle visioni d'A. Artaud; dalla pratica di V. Mejerhold a quella d'E. Piscator, E. Decroux, J. Beck, J. Grotowski, T. Kantor o B. Wilson, la volontà di prendere in considerazione il movimento scenico e più particolarmente il movimento dell'attore non si é fermata di affermarsi.
Se alcuni di questi grandi Maestri hanno lavorato su una metodologia trasmissibile come Appia grazie alla sua collaborazione con J. Dalcroze sulla "ritmica", come Meyerhold con la sua "biomeccanica", come Decroux con il suo "mimo corporeo", come Grotowski con il suo "physical and vocal training", le loro ricerche sono rimaste ciascuna richiusa nella sfera della propria esperienza teatrale. Malgrado i loro contributi preziosi e storicamente riconosciuti, la pedagogia teatrale sembra impermeabile alle loro rivoluzioni. NelIa maggiore parte delle scuole teatrali predomina sempre l'interpretazione verbale, la recitazione parlata infeudata ad un testo d'autore; il concetto di un attore interprete e non creatore. Le capacità espressive del corpo rimangono un annesso, un ingrediente, invece di essere considerato come la priorità delle priorità.
È senz'altro un'assurdità perché anche l'esigenza della funzione interpretativa nella sua più pura tradizione implica necessariamente un ritorno al corpo. La funzione verbale stessa, nel suo aspetto fisiologico, riporta l'attore al suo corpo. Non c'é voce senza respiro e non c'é respiro al di fuori del corpo. La voce e la parola sonno l'estensione della corporalità dell'attore. Anche la sacro-santa "interpretazione" riporta l'attore al suo corpo. Un testo da interpretare trova la sua potenza espressiva solo quando é vissuto da parte dell'attore. Questo vissuto, caricato di sensazioni, emozioni e pensieri, attraversa per forza il corpo. Il corpo é il ricettacolo per eccellenza del suo pensiero. Annullare la fisicità del corpo é distruggere di conseguenza ogni materializzazione possibile del pensiero. Il Maestro in assoluto del teatro di prosa stesso, la divinità di ogni scuola di teatro: C. Stanislavski non ha cessato di costruire una metodologia capace di reintegrare il testo al vissuto affettivo e mentale dell'attore affinché la presenza fisica di quest'ultimo potesse incarnare le parole dell'autore. Solamente a questa condizione, la recitazione parlata di un testo d'autore trova la sua autenticità e contemporaneamente il suo impatto nel pubblico.
Purtroppo le Accademie d'Arte Drammatica rimangono sorde a tali riflessioni. Come durante lo XIX secolo, l'autore é il re e l'attore, il suo servo.
La frattura tra le istituzioni responsabili della formazione teatrale e la ricerca artistica contemporanea é tragica. La crisi d'identità che agita il teatro di questo secolo con l'avvenimento del cinema e della televisione, va affrontata senz'altro nella ricerca di una risposta a questa spaccatura. L'osservazione di V. Meyerhold sulla necessità di creare prima un nuovo attore per creare dopo un nuovo teatro é sempre d'attualità.



Revista "Rampelyset", n° 125, April/Maaggio 1977, Thisted, Danimarca.
Intervista a cura di H.O. Jørgensen (traduzione italiana in corso)


Un certain désaccord souvent apparaît entre Danse, Mime et Pantomime. Comment voyez-vous ces trois éléments et leur relation?
Il est toujours dangereux d'effectuer des classifications entre les arts et de placer ces derniers dans des tiroirs portant étiquettes. Cela entraîne immanquablement une vision systématique et doctrinaire stérile. La pratique des arts possède une vitalité qui ne saurait se mettre en boîte aussi aisément que la pensée analytique et théorique voudrait bien nous le faire croire. Parler des différences entre la danse, le mime et la pantomime est donc une tâche périlleuse et délicate. Encore faudrait-il savoir ce que sont la danse, le mime et la pantomime? Les danseurs, mimes et pantomimes seraient bien incapables de donner eux-mêmes une définition stable et générale de leur art. Ils ne peuvent parler que de leur choix artistique. Entre la danse classique, la danse moderne, folklorique, primitive ou de salon, se situent des écarts d'orientations dont l'importance permet des définitions aussi diverses et contradictoires les unes que les autres.
À l'inverse, le mime et la pantomime recouvrent bien souvent, la même pratique. Je ne constate guère de différence majeure entre ces deux genres. Certains voudraient voir dans le premier un langage plus intérieur et symbolique, tandis que le second serait plus descriptif et narratif. Mime et pantomime m'apparaissent intimement mêlés et confondus. Ils peuvent être considérés, tout au plus, comme deux manières différentes d'un même langage et non comme deux formes d'expression clairement distinctes. Si vous ne départagez pas dans votre question les diverses tendances de la danse, il n'y a pas lieu de départager le mime de la pantomime. Dans ces conditions, je me permets de ramener le propos de votre demande à comparer la danse et le mime en incluant dans cette dernière appellation la notion de pantomime.
Historiquement, la danse et le mime semblent avoir en occident une origine commune : "la saltation" de la Grèce antique. Si nous nous référons à certains témoignages d'époque, nous pouvons constater que la gestuelle du saltateur était structurée d'une part, par la cadence rythmique et mélodique de la musique, et d'autre part, par l'agencement d'un ensemble de signes capables de raconter une histoire. Cette union de l'élément rythmique et narratif se trouve présente dans la plupart des formes d'expressions corporelles primitives.
De ce noyau originel, la gestuelle rythmique semble s'être progressivement détachée pour donner naissance à la danse sous l'influence permanente de l'élément musicale, tandis que la gestuelle narrative trouvait peu à peu son autonomie pour donner naissance au mime. Ces deux tendances semblent correspondre en fait, aux deux grands états: lyrique et épique, inhérent à toute forme de représentation et dont on peut saisir le parallèle entre le chanter et le parler. Face à la même réalité d'un fait, l'état lyrique l'absorbe dans une vision universelle par l'allégorie, l'état épique l'insère dans une vision particulière où il sera représenté. La danse semble correspondre à un moment d'extase s'échappant du réel et le mime à un moment de confrontation s'enracinant dans le réel.
La danse chante, le mime parle.

Quels sont d'après vous les éléments de base propre au mime?
En essayant de définir les caractères respectifs du mime et de la danse, j'ai déjà implicitement répondu à cette question. Je ne ferai donc que développer ce que j'ai déjà formulé précédemment, à savoir que le propre du mime est de raconter le déroulement d'une histoire par le seul moyen du mouvement corporel dans le silence.
Pour représenter cette histoire, le mime doit tout d'abord incarner les différents personnages qui en sont les protagonistes, décrire les actions que ces derniers entreprennent et exprimer à la fois les sentiments qui les animent.
En personnifiant le personnage, il va imiter le comportement de ce dernier. Dans sa pantomime "David et Goliath" par exemple, Marcel Marceau semble dilater ou réduire son corps pour personnifier tour à tour Goliath et David. Dans sa fonction descriptive, le mime va créer l'illusion d'exécuter une action sans le recours des objets ou des formes vivantes circonscrivant ladite action, comme le fait Marcel Marceau dans sa pièce "Bip chasseur de papillon". Dans sa fonction expressive, le mime va utiliser l'ensemble de son corps et principalement sa mimique faciale pour exprimer la croissance, l'épanouissement et la perte de la vitalité à l'intérieur des différentes étapes successives de la vie d'un homme dans sa pièce "Naissance, maturité et mort". Il est important de noter toutefois que l'expressivité du corps n'est pas un attribut propre au mime. C'est un impératif commun à tous les arts vivants, inhérent à la fois à l'acteur parlant et au danseur. Ce qui lui est spécifique est donc son caractère imitatif et illusionniste. Ceci peut constituer la base d'une définition: le mime est une expression corporelle imitative utilisant une gestuelle illusionniste.
Mais je ne peux réduire mon opinion sur le mime à une simple définition de style. Le processus d'un langage dans son mécanisme expressif et communicatif est une chose, la charge que celui-ci véhicule par son expression en est une autre. Il convient donc de réajuster cette définition du mime en fonction de sa pratique.
Si au cours des siècles de l'Antiquité à nos jours, le mime est resté fidèle dans ses procédés à sa vocation imitative et illusionniste, sa pratique a subi des orientations différentes.
Face à son origine et à sa tradition populaire qui n'a cessé de le guider jusqu'à XIXéme siècle, le mime d'aujourd'hui me semble être devenu un art purement stylistique et porteur d'aucune force réellement novatrice. C'est un rebus de petites histoires, tantôt ironiques tantôt dramatiques sur fond de poésie mais dont l'unique propos, bien souvent, est de divertir. C'est un art qui se confine dans un vocabulaire de clichés, selon une panoplie d'effets inlassablement répétés, copié, réédités et sans cesse aimanté par l'imagerie jaunie du Pierrot.
Le mime nostalgique auréolé d'innocence et drapé dans son nuage de farine ne m'a jamais intéressé. Sa pratique soit me laisse indifférent soit m'irrite, car elle a perdu sa force de protestation.
Si pour l'artiste les routes sont multiples et diverses, les orientations ne le sont pas. Un seul choix s'impose: soit notre action s'engage comme une volonté transformatrice, protestant contre une situation sclérosante, stimulant des forces nouvelles, soit elle participe à la routine de l'ordre établi, en entretenant le ronronnement sécurisant du conformisme. Dans un cas, elle agit comme une force régénératrice, dans l'autre elle maintient un état conservateur entraînant immanquablement décadence et dégénérescence. Ce choix d'orientation préexiste à toute initiative de travail et dépasse de beaucoup la fonction du mime, du théâtre et des arts en général pour concerner finalement tous les niveaux de notre structure sociale.
Si le mime fidèle à son origine imitative et illusionniste veut survivre et se développer, il me semble qu'il doit retourner à ses racines populaires, puiser sa force où il s'est formé sur les tréteaux des théâtres ambulants du moyen âge, dans les baraques foraines. Le mime est né sur les places publiques et sa vigueur fut toujours dans l'histoire une force subversive et contestataire.
Perdre cette vigueur, c'est faire du mime un art de salon voué à la décadence.

Comment définissez-vous le Mime abstrait et en quoi diffère-t-il du Mime pure?
Je ne peux répondre à votre question telle qu'elle est formulée car pour ma part, le Mime Abstrait est le mime pur. Il me faut donc modifier votre demande afin de placer sa comparaison entre le mime abstrait et le mime traditionnel tel que je l'ai défini précédemment.
La notion de mime abstrait me fut enseignée par Etienne Decroux. Lui-même dans une première période nommait ce mode d'expression "mime subjectif".
Mime abstrait ou mime subjectif son appellation est de toute façon une antinomie imposée par le langage verbal dans son incapacité à rendre compte unitairement de la dualité toujours présente en chaque forme de vie: l'esprit et la matière, la pensée et le corps.
Le mime abstrait serait le point de fusion entre la vie subjective propre à l'univers psychique de l'acteur et celle objective propre à la physiologie de son propre corps. Il serait le développement extrême du Mime Corporel vers ce que je nommais précisément "le mime inversé" dont la poétique ne s'appui plus sur les références du monde extérieur mais sur celles du monde intérieur.
La figuration représentative d'une action scénique n'est finalement qu'un prétexte pour communiquer au-delà de sa description formelle, une énergie, une réflexion, un message plus essentiel. Le mime abstrait annule le prétexte descriptif de la figuration afin de communiquer le message directement par la matière organique du corps. L'acteur n'est plus alors un personnage inscrit dans un déroulement anecdotique, mais un organisme physique dont les mouvements, les contractions, les détentes et les pulsions révèlent le déroulement de son énergie psychique.
Il ne représente plus sa pensée, il pense par son corps. Les signes de son langage ne sont plus les gestes conventionnels et reconnaissables par le public, mais les mouvements biologiques à redécouvrir dans son corps. Exprimer une lassitude en passant le dos de sa main sur son front, c'est utiliser un signe conventionnel reconnaissable. Exprimer cette lassitude par un affaissement de la poitrine et du corps, c'est la révéler par un signe biologique non codifié, non reconnaissable, mais dont le sens peut-être redécouvert intuitivement par le public dans l'instant de sa réalisation. Ainsi en effaçant la narration anecdotique des signes conventionnels, le mime abstrait retourne à la matière fondamentale du corps. En ce sens son appellation pourrait- être tout aussi bien celle de mime concret, celui qui retourne à la vie organique comprise comme l'architecture essentielle des énergies animant toute forme vivante.
Mime abstrait, mime subjectif ou mime concret, toutes ces appellations seront toujours équivoques et sujettes à malentendus, car entachées par la fonction imitative inhérente au terme mime.
Etienne Decroux argumentait son choix terminologique de mime abstrait en déclarant qu'il s'agissait de "l'imitation des mouvements de la pensée". Il aurait été préférable de prendre tout de suite ses distances vis-à-vis d'une appellation si compromise. Le mime ne peut échapper à sa signification étymologique et à sa tradition historique: l'imitation illusionniste. Ceci est sa racine et sa source desquelles il doit puiser sa force de renouvellement. Si nous envisageons une autre forme d'expression, liée peut-être indirectement ou directement à la tradition du mime mais ne possédant plus le caractère imitatif et illusionniste, il serait préférable de choisir un autre terme, vierge et dont la signification sera la résultante de la pratique qu'il recouvre.
C'est ainsi que depuis plusieurs années je refuse de présenter mon travail sous l'appellation de mime ou mime abstrait pour revendiquer celle de Théâtre corporel dans le domaine de la création et de Langage du corps dans celui de la pédagogie.

Combien de temps avez-vous travaillé sur le personnage de votre spectacle "Hein?…"? Ce travail est-il en relation avec celui de J.L. Barrault et comment pouvez-vous le situer par rapport à la théorie d'E.Decroux concernant "poussée / contre-poussée, - tirée / contre-tirée"?
J'ai travaillé sur la préparation du spectacle durant deux années consécutives, mais suivant un rythme de travail tout différent de ceux qui ont présidé à l'élaboration des spectacles précédents orientés vers le théâtre abstrait. Les cinq créations qui précédent "Hein?…" ont toutes été réalisées durant une période intensive de trois à quatre mois où le travail d'entraînement, d'improvisation et de répétition s'enchaînait à une cadence d'environ 8 à 9 heures de travail journalier. Il s'agissait chaque fois d'une épreuve de force, d'une concentration extrême sur l'objectif du travail sans compter les 3 ou 4 heures de travail quotidien consacrées aux tâches administratives.
"Hein?…" fut créé à l'inverse. J'y travaillais entre les tournées, de temps à autre, selon des périodes de travail allant d'une à quatre semaines espacées parfois par des intervalles de deux à trois mois. Ce rythme de travail m'a semblé assez juste car il permet à la matière du spectacle de macérer dans l'inconscient, de passer par le filtre sélectif et naturel du temps. Le travail s'appuie ainsi sur le non-travail, l'action s'élabore sur l'oubli. Le processus de création n'est jamais forcé, il se met en place de lui-même par retombée, décantation. C'est ainsi qu'après deux années de recherche, d'esquisses successives et clairsemées, le spectacle a trouvé sa structure soudainement en une semaine sans que j'aie eu à établir véritablement l'architecture d'un scénario ou d'une partition à partir des matériaux lentement amassés durant le travail.
Pour répondre aux deux autres points de votre question, je dois vous avouer que je ne vois pas premièrement quel rapport spécifiques le travail réalisé sur ce spectacle peut avoir avec celui de J.L. Barrault, et deuxièmement, j'ignore à quelle théorie vous faites allusion quand vous parler de "poussée/contre poussée - tirée/contre tirée". Si vous voulez vous référer à l'étude qu'Etienne Decroux a faite sur les actions de pousser, de tirer - d'être poussé et d'être tiré, je ne vois pas du tout en quoi cette étude partielle peut être érigée comme une théorie couvrant l'ensemble de son enseignement.
C'est une tendance regrettable que de vouloir toujours ramener un travail à un système, faire d'une recherche créative une doctrine dogmatique. C'est assurément tuer la vie au profit d'un académisme figé. L'enseignement d'Etienne Decroux fort heureusement ne se réduit pas à un principe unique ou à une méthode. C'est une multitude comportant bien des contradictions à l'image de la bipolarité relative et constante de toute forme vivante, où la seule théorie valable est la pratique, où la seule réflexion crédible est celle de l'action quotidiennement renouvelée. Si une relation existe entre "Hein?…" et le travail d'Etienne Decroux, elle se situe au-delà de la littéralité du spectacle et d'un principe partiel de son enseignement.

Est-il possible de dire que "Hein?…" soit d'une certaine manière le résultat de votre recherche sur le mime abstrait?
Directement, non. Indirectement, oui.
"Hein?…" fut au premier abord envisagé comme l'antithèse de mes spectacles précédents. Après cinq années de recherche et de création dans l'optique d'une forme théâtrale abstraite de caractère tragique, épurée, ramenée à une réalité ascétique, méthodiquement expérimentée et dans une volonté constante de justification théorique, je sentais se refermer sur moi le cercle de mes propres convictions. Afin d'éviter l'asphyxie et la sclérose, il fallait renouveler le sang, rompre ce cercle et s'engager dans une direction diamétralement opposée. Ce fut "Hein?…" conçu dans une forme théâtrale burlesque et absurde, avec un personnage bien particulier et des objets bien concrets ayant reçus la patine du temps et où la seule justification théorique était celle du plaisir de l'acte théâtral.
Ainsi c'est dans une logique de rupture que "Hein?…" trouve sa continuité avec mes spectacles précédents. Toutefois il ne s'agit pas d'une contradiction ou d'un changement radical. Le théâtre abstrait reste mon orientation dominante même si depuis trois ans je n'ai rien entrepris de nouveau en ce domaine. Mais le travail sur "Hein?…" m'a démontré qu'il importe d'agir dans la diversité, que la création théâtrale ne doit pas se fixer sur un seul mode d'intervention, mais qu'elle doit tendre vers une pluralité en réponse à la pluralité du public et à la polyvalence des acteurs. Il me semble important d'agir à tous les niveaux de la communication, non pas dans la perspective d'un théâtre total, mais dans celle d'un champ de productions théâtrales différentes les unes des autres où chaque spectacle possède sa propre fonction vis-à-vis du public auquel il s'adresse. Un théâtre de rue est aussi nécessaire qu'un théâtre de scène, un théâtre populaire qu'un théâtre de recherche ou pour enfants dans les milieux scolaires.
Il m'apparaît comme vital d'élargir toujours sa pratique théâtrale afin d'étendre son champ d'intervention. La difficulté est de maintenir l'unité dans la diversité et le privilège dans l'ouverture.

Comme Marcel Marceau, vous avez été formé selon le système de mouvement créé par Etienne Decroux. Y a t il certains parallèles entre "Bip" et "Hein?…" ?
Encore une fois, il ne s'agit pas du système d'Etienne Decroux. Tout système est de fait systématique et conduit au stéréotype, à la fabrication de procédés stériles.
Etienne Decroux propose beaucoup plus qu'une technique, qu'un système, qu'une méthode ou qu'une théorie. Il invite à une confrontation, il incite une découverte, celle de notre corps-pensée, et surtout, il suscite une manière d'appréhender le travail, provoque une expérience sur soi, en soi et par soi-même. Son enseignement ne se réduit pas au simple inventaire descriptif de ses exercices. Au-delà se situe l'esprit qui motive leur incessante élaboration, ce qui est explicable et ce qui ne l'est pas, ce qui est fait et ce qui est dit, ce qui est démontré et ce qui est suggéré, ce qui est défini et ce qui est indéfini avec tous les aléas et les contradictions que de telles alternatives impliquent. L'enseignement d'Etienne Decroux n'est pas un squelette avec étiquettes. C'est un organisme comportant ces correspondances internes, ces ramifications insoupçonnées selon des jeux de reflets et d'échos difficiles à localiser et où la netteté discursive du discours est sans cesse enveloppée de clairs-obscurs intuitifs.
Etienne Decroux est un homme épris de clarté cartésienne, parlant avec amour de l'esprit géométrique, mais qui par ailleurs explose parfois dans des colères dont la force dépasse tout ce que j'ai pu voir chez le genre humain. Cette réalité est trop souvent négligée de la part de ses étudiants qui ne retiennent souvent que ce qui est expliqué. La lecture de son enseignement ne peut donc se limiter à ce qui est formulé. Elle doit être double. Cette ambiguïté détermine par voie de conséquence des interprétations diverses. C'est la raison pour laquelle les élèves d'Etienne Decroux peuvent parfois emprunter des routes très différentes.
On n'acquiert pas une formation d'acteur comme on acquiert celle de comptable. L'étudiant se forme davantage que l'enseignement ne le forme. De plus un enseignement vivant n'est jamais immuable et celui d'Etienne Decroux ne cesse d'évoluer.
J'ignore précisément ce que fut l'école d'Etienne Decroux lorsque Marcel Marceau y a étudié mais je sais que mon intérêt pour l'école ne fut jamais porté sur le caractère imitatif et illusionniste. Etienne Decroux lui-même n'insiste pas sur cet aspect et il a souvent quelques réticences à nous enseigner des mouvements trop illusionnistes et facilement utilisable dans la pantomime descriptive. J'ai toujours senti que sa préoccupation majeure était davantage tournée vers la relation du corps et de la pensée dans un développement de symboles que sur l'apprentissage d'une imitation.
Je n'ai jamais étudié en quatre années comment ouvrir une porte sans porte, monter à une échelle sans échelle, s'asseoir sur une chaise sans chaise, toute la panoplie illusionniste de tout bon mime qui se respecte, jusqu'à la fameuse marche sur place mise au point par Etienne Decroux et que l'on voit exécuter par J.L. Barrault dans le film "les enfants du Paradis". C'est précisément ce refus de l'imitation illusionniste qui me motiva à rester à l'école d'Etienne Decroux. Je le répète: la pantomime ne m'a jamais intéressé et je me suis toujours refusé à utiliser des procédés illusionnistes dans mes spectacles.
Si on ajoute à cela que "Hein?…" est basé sur un dialogue entre le personnage et des objets bien réels, qu'il comporte une expression vocale faite de sons, d'onomatopées, d'interjections et de quelques phrases, il est évident qu'un écart important me sépare du travail de Marcel Marceau. Le personnage de M. Ballon que j'incarne ne se reconnaît aucunement dans celui de Bip et s'il y avait des parallèles à établir il faudrait les chercher davantage avec Charlie Chaplin, Buster Keaton, Samuel Beckett et la tradition des clowns de cirque.
Chaplin comme Keaton appartiennent davantage au théâtre qu'à la pantomime. Ils se lançaient au visage de vrais tartes à la crème car l'important c'est la manière et non le procédé.
Il semble qu'il y ait trois grandes écoles de mime aujourd'hui en Europe, en Tchécoslovaquie, en Pologne et en France.

Quelles sont d'après vous leurs différences et laquelle a obtenu les meilleurs résultats dans le cadre du théâtre contemporain?
Je pense que vous faites allusions à Fialka, Tomaszewski et Decroux. Je ne connais pas suffisamment le travail de Fialka ni de Tomaszewski pour pouvoir établir véritablement une comparaison critique. Il m'est donc difficile de vous répondre. Néanmoins, j'ai eu l'occasion de voir un spectacle de Fialka et un autre de Tomaszewski. En me basant sur ce qui me fut présenté, je peux dire que Fialka est resté toujours très proche du mime traditionnel imitatif et illusionnistes dans une forme théâtrale purement divertissante et que Tomaszewski, s'il semblait s'éloigner du mime traditionnel, ce n'était que par l'intervention d'un vocabulaire corporel emprunté davantage à la danse que par de réelles initiatives innovatrices. D'autre part, le caractère faussement onirique et allégorique, le mauvais goût scénographique et la grandiloquence du spectacle me semblaient peu propices pour l'avènement d'un renouvellement à venir.
Je reste donc très partisan et considère que le travail d'Etienne Decroux est le seul à ma connaissance, qui véritablement touche à l'essentiel, pénètre en profondeur dans la réalité du corps-pensée et le seul à porter un renouveau même si par beaucoup d'aspects son enseignement se formalise et s'enferme dans un esthétisme.
A l'écart des clichés pantomimiques, à contre-courant des tendances subjectivistes de beaucoup de théâtres contemporains, Etienne Decroux travaille pour une régénérescence du théâtre dans la voie déjà ouverte par E.G. Craig, A. Appia, J. Copeau et O. Schlemmer.